La SOMS di Lentiai
La SOMS di Lentiai
Quando nei grandi centri urbani e industriali del Paese il movimento mutualistico operaio ha già imboccato la sua parabola discendente, soppiantato da forme più moderne di tutela sociale, nasce a Lentiai una delle ultime società operaie di mutuo soccorso. Nel celebrarne il primo centenario, è interessante analizzare e riscoprire le molteplici cause che hanno dato vita a questa tardiva associazione. Trattasi in effetti di concause, di eventi cioè che si sono talmente intrecciati fra di loro, da creare le premesse per la costituzione di un ente di tutela dei bisogni primari della popolazione, il cui stato socio-economico è considerato a quel tempo di generale miserabilità.
La Società Operaia di Lentiai affonda dunque le radici nel seguente contesto sociale:
– esplosione demografica favorita dalla repentina scomparsa di malattie endemiche e dal miglioramento delle condizioni alimentari, che innalzano la media della vita da 29 a 43 anni nel giro di una generazione;
– esodo di massa negli anni 1870-90 di numerose famiglie verso il Brasile e il Messico con conseguente spopolamento del territorio;
– emigrazione quasi completamente stagionale verso i Paesi limitrofi (Austria, Germania, Francia, Stati slavi), dove sono in corso gigantesche opere pubbliche come la costruzione di ferrovie, ponti, gallerie, stazioni, strade, canali, porti, o sfruttamento di miniere, cave e foreste, o vaste terre da coltivare. Questi lavori durano 6-8 mesi, costringendo i lavoratori a rimpatriare e a rimanere inattivi per lunghi periodi;
– emigrazione stagionale verso i centri industriali della Lombardia, del Piemonte e della Liguria, dove i nostri concittadini s’impiegano nella manovalanza delle costruzioni ferroviarie, stradali e delle grandi gallerie CSempione, La Spezia). Anche questa consistente fetta di lavoratori rientra nel tardo autunno e allunga la lista dei disoccupati;
– scomparsa di numerose mezzadrie, abbandonate dalla nuova generazione che vede nell’emigrazione l’affrancamento dalla schiavitù rurale;
– consistente diminuzione di manodopera, non solo nell’agricoltura, ma anche nel fiorente artigianato, come effetto immediato del continuo flusso emigratorio.

Non c’è alcun dubbio: l’emigrazione è la chiave di lettura di tutti i rivolgimenti socio-economici che affliggono la nostra comunità nell’ultimo quarto del secolo XIX. Lo spopolamento del Comune, che vede i suoi abitanti scendere da 3800 ad appena 1800, per quanto paradossale possa sembrare, liberalizza risorse economiche non più sfruttate per mancanza di forze lavorative.
In questo quadro di generale incertezza e di miseria, perchè chi rimane produce solo il necessario alla sopravvivenza, si fa strada la rassegnazione all’emarginazione e la consapevolezza che le nostre zone non entreranno mai nel circuito industriale e progredito del paese. Esse sono condannate alla povertà e ad utilizzare unicamente le risorse di sempre: agricoltura e artigianato. Sarà la nostra terra una gigantesca arnia, da cui per un secolo usciranno a stormi generazioni di emigranti. Un gruppetto di persone rappresentative della comunità, testimone impotente di tale situazione, si preoccupa di quanti rimangono ed escogita qualcosa che li aiuti a sfruttare le risorse disponibili con maggior oculatezza e tecnica, cercando in tal modo di frenare l’emoraggia dell’emigrazione.

Animatore di questa avventura è Antonio Solagna di’Ronchena e alcuni suoi compagni di fede socialista come Antonio De Ros, Costante De”‘Ros, Bortolo Luzzatto, Giulio Piccolotto, Pietro Deola e altri. Costoro sono i primi ad aderire al Partito dei Lavoratori fondato a Genova nel 1892 e diventato poi Partito Socialista. Sono loro che da tempo discutono e propongono soluzioni per Lentiai. Nel corso della primavera del 1897 essi lanciano una sfida alla miseria e propongono la fondazione di una Società Operaia di Mutuo Soccorso, che si rifaccia alle collaudate esperienze di altre più antiche e celebri consorelle. Dall’altra sponda rispondono positivamente cattolici e moderati come Luigi De’ Mozzi, Giovanni Vergerio (maestro), Domenico Cambruzzi, Giovanni Cristini (medico) ed altri ancora. Una volta tanto i rappresentanti di diverse correnti di pensiero politico s’incontrano per attuare qualcosa di utile e di necessario per la collettività. Viene subito elaborato e stampato lo statuto secondo i dettami della legge 3218 del 15.04.1886 sulle società di mutuo soccorso. Entra in vigore il lO gennaio 1898, data quindi di inizio ufficiale e legale dell’attività societaria. Il 6 marzo dello stesso 1898, avviene a Roma un fatto singolare: il deputato radicale Felice Cavallotti cade in duello contro il collega e rivale Ferruccio Macola. L’avvenimento ha una risonanza eccezionale in tutta Italia, in quanto il Cavallotti è un personaggio universalmente noto per il suo coraggio civico e politico, per le sue battaglie giornalistiche e parlamentari e per il suo fascino personale, che ammaglia e trascina. La sua morte viene paragonata dagli uni a quella di un cavaliere della Tavola Rotonda, dagli altri a quella di un grande spirito immolatosi per il trionfo di tutte le libertà. I dirigenti dell’ Operaia emozionati e un po’ travolti da questa figura clamorosa, decidono di dedicare la neonata società al patetico duellante e da quel momento essa si chiamerà “Società Operaia di Mutuo Soccorso Felice Cavallotti”.

Un’idea dell’enorme emozione suscitata in paese dalla scomparsa di quest’uomo ce la tramandano le seguenti testimonianze: una via di Lentiai viene dedicata a Felice Cavallotti e sussiste tuttoggi. Il De’ Mozzi, titolare del Caffè San Pellegrino, ribattezza il suo locale Caffè Cavallotti (poi diventerà Caffé Impero, quindi Bar Faccini ed ora Corvo Rosso). E infine il fornaio Marco Zornitta, diventato padre per la seconda volta un mese dopo, imporrà al neonato i nomi Secondo Cavallotti. Presidente della Società viene eletto Antonio Solagna. Tutti gli riconoscono carisma di trascinatore e di geniale solutore di problemi economici. La segreteria viene affidata al moderato Luigi De’ Mozzi.

Nei primi articoli dello statuto sono chiaramente illustrati gli intendimenti che la nuova società si prefigge di perseguire ed attuare:
Art. 2 L’associazione ha per iscopo: il mutuo soccorso, l’istruzione, l’eccita mento al lavoro e tutto quando tenda al miglioramento delle condizioni morali e materiali dei soci.
Art. 3 La Società si compone di esercenti una professione, un’arte, un’industria, un mestiere e di operai e contadini che hanno il domicilio nel Comune di Lentiai od in quelli limitrofi; che godano estimazione di moralità, sieno buoni cittadini e buoni capi e figli di famiglia e si obblighino di osservare il presente statuto. Questi si intitoleranno soci effettivi.

La Società Operaia, al di là del mutuo soccorso, intende avventurarsi anche nel campo dell’istruzione, dell’incitamento al lavoro e del miglioramento delle condizioni morali e materiali dei socio. Vediamo come. Essa organizza corsi serali di alfabetizzazione e di completamento della scuola elementare. Come noto, le scuole comunali comprendono soltanto le prime tre classi elementari. Con l’anno scolastico 1906-07 viene aggiunta la 4a e nel 1919-20 la Sa. Chi frequenta questi corsi serali, a carattere dunque privatistico, può sostenere il pubblico esame per il conseguimento di un attestato ufficiale di frequenza. I corsi serali alle Ville di Sotto si tengono nei locali del castello di Cesana. Non ci sono atti societari che ne attestino la data d’inizio. Si sa con assoluta certezza che essi si concludono nella primavera del 1917, perchè in autunno arrivano gli invasori austro-ungarici ed occupano il castello. Finita la guerra, i corsi non vengono più ripristinati perchè, come accennato sopra, alle quattro elementari viene ora aggiunta anche la quinta e la scolarizzazione diventa ormai obbligatoria.

L’Operaia incita soprattutto gli uomini a svolgere un’atttività lavorativa qualsiasi, perchè qualsiasi lavoro o mestiere è fonte di reddito. Il lavoro, infatti, non può e non dev’essere più considerato come sola necessità di sopravvivenza, ma soprattutto come produttore di benessere. L’eccedenza fra il guadagno e il necessario alla vita costituisce il risparmio che il lavoratore può utilizzare per accedere ad altri servizi e ad altri beni prima d’ora impossibili. Nella realtà questi auspici, se non totalmente, in gran parte si realizzano. In questi anni, infatti, molti proprietari terrieri del lentiaiese svendono le loro mezzadrie abbandonate dagli emigrati. Alcune di esse vengono acquistate da famiglie locali, ma la maggior parte, mancando la popolazione idonea, vengono prelevate da famiglie provenienti dal Comune di Mel e da altre zone della Valbelluna. Nasce in tal modo un metodo nuovo di coltivare la terra e soprattutto di allevare il bestiame. La produzione di latte aumenta e la lavorazione di esso, attraverso l’apertura di latterie, consente al produttore di assicurarsi un guadagno stabile e sicuro. Anche la condizione dei tanti mezzadri ancora rimasti migliora sensibilmente, tanto da non trovarsi più nell’atavica situzione di sottomessi e di sfruttati, ma di collaboratori del proprietario del fondo e quindi partecipi dei profitti. Le vie per l’innalzamento delle condizioni morali del cittadino sono così tracciate: esse passano inevitabilmente per il territorio di quelle materiali. Al riguardo, Antonio Solagna apre a Ronchena una cooperativa di consumo ed una latteria sociale, i cui risultati spingono gli allevatori ad avviare le latterie di Stabie, Colderù, Boschi e Lentiai. Nel Capoluogo viene aperta anche la Banca Agricola.

L’articolo 3 dello statuto enumera le categorie di operatori che possono far parte della società. È sorprendente che prima degli operai e contadini, categorie quasi esclusive nel Comune, vengano elencati gli esercenti una professione, un’arte, un’industria ed un mestiere. I professionisti, nel significato attuale del termine, sono allora i medici, i farmacisti, i maestri, i notai, gli ingegneri. Gli esercenti un’arte sono considerati i lavoratori della pietra e del legno. Industrie non ce ne sono, ma non si sa maL..! E per quanto riguarda i mestieri esercitati in questo tempo sono quelli degli artigiani: dal fabbro-ferraio al falegname, dal muratore-costruttore al mugnaio. Ai fini sociali e della solidarietà non ci sono pregiudizi o distinzioni di ruolo: ognuno può collaborare e contribuire al miglioramento della società.

Il miglioramento diventa evidente nel giro di poco tempo, anche se contemporaneamente si ripresenta il problema del dopo unità d’Italia: il consistente aumento demografico. Gli anni ’80 e ’90 sono particolarmente prolifici. Mentre un trentennio prima è stata la scomparsa di mali endemici ad aumentare la popolazione, ora è il tentativo generale di coprire i numerosi vuoti lasciati da tanti anni di emigrazione. In tal modo si arriva a raddoppiare un’altra volta il numero di abitanti, cui si devono aggiungere le numerose famiglie immigrate dalle zone limitrofe, anch’esse attirate dai vuoti lasciati dagli emigranti. Questa impennata demografica causa una nuova ondata di partenze verso la Svizzera, la Germania, la Francia e gli U.S.A.

L’impulso dato dall’Operaia rimane comunque un punto fermo e altamente positivo: la tradizionale mentalità della popolazione ancorata agli antichi ed arcaici schemi di vita e di costume si trasforma notevolmente e spinge verso orizzonti moderni e più liberali le cocienze ed ogni espressione dell’uomo. All’atto della sua fondazione, la Società Operaia non dispone di una sede. Dirigenti e soci si ritrovano all’osteria Alla Luna di Gongolo ò al Caffé Cavallotti di De’ Mozzi o all’albergo La Stella. Ma un’associazione come questa non può fare a meno di una sede, perchè solo una sede stabile e propria rappresenta l’unità degli associati ed il punto di riferimento decisivo. Se i fondatori non si fossero preoccupati di costruire e assicurare al movimento una casa comune, forse la Società oggi non esisterebbe più. Il 29 settembre 1908 il dottor Giovanni Cristini e Antonio Solagna, quale presidente dell’Operaia, si trovano dal notaio Gerolamo Zadra di Feltre. Il primo vende e il secondo acquista per conto della S.O. Felice Cavallotti di Lentiai, un immobile (terreno) di pertiche 0.17 pari ad are 1.70 (mq 170) per il prezzo di £ . 50. Interessante questo passaggio dell’atto: Il fondo viene venduto a corpo e non a misura nelle condizioni materiali come si trova alla Società Operaia acquirente ben note per esserne già al possesso. L’Operaia è dunque già in possesso del terreno e probabilmente ha già iniziato i lavori di costruzione dello stabile, che viene inaugurato il 15 dicembre 1910.

Allo scoppio della la guerra mondiale (24.05.1915) arriva a Lentiai un presidio militare italiano, che utilizza la sala della Società Operaia come deposito di viveri. Non si sa se lo stabile è requisito o dato in affitto. Sta di fatto che nel pomeriggio del 10 novembre 1917 il presidio italiano se ne va e verso le 22 fa saltare alle sue spalle il ponte di Cesana. Tutti i viveri che si trovano nei locali vengono lasciati alla popolazione che naturalmente li preleva e li nasconde per metterli al sicuro dagli invasori. Alle nove del mattino seguente gli Austro-Ungarici sono già arrivati in piazza. La Società Operaia, come tutti gli edifici pubblici e privati, viene requisita dagli invasori, che la trasformano prima in dormitorio, poi in deposito di munizioni ed infine in ospedaletto da campo. Terminata la guerra, si tirano le somme: molti soci sono morti in guerra e a causa della spagnola, altri sono invalidi, qltti comunque senza lavoro e senza mezzi. L’agricoltura è stata completamente distrutta dagli invasori; non c’é più bestiame; le latterie sono chiuse; la montagna abbandonata e ferita. Per recuperare queste perdite e chiudere queste ferite ci vogliono anni di duro lavoro e di grandi sacrifici. Intanto la miseria cresce. Non tutti resistono alla tentazione di andarsene. Scatta così un nuovo imponente esodo di lentiaiesi che dal 1921 emigrano verso la Francia, gli U.S.A. e soprattutto verso l’Argentina e il Brasile un’altra volta. La Società Operaia, come altre istituzioni locali, perde in poco tempo gran parte dei suoi soci. Il folto drappello emigrato in Argentina continua laggiù il legame di fratellanza tra lavoratori e fonda a Buenos Aires una Società di Mutuo Soccorso ad immagine e somiglianza di quella lasciata a Lentiai.

La Società Operaia nel periodo 1926 – 1945

Dopo aver perduto molti soci a causa dell’emigrazione, l’Operaia si vede via via limitata nelle sue attività dal regime fascista, che già nell’autunno del 1924 comincia ad assediarla.

Dopo l’assemblea generale del gennaio 1925, che ha confermato alla sua guida la vecchia guardia, il Prefetto nomina un commissario, Massimiliano Panigas, con l’incarico di liquidare la Società. Il 16 febbraio successivo tutto il materiale societario e le risorse finanziarie vengono rimessi nelle mani del liquidatore. Questi tira le cose in lungo e in largo ed ottiene la ricostituzione dell’ente su basi statutarie nuove, che i soci approvano in assemblea il 10 novembre 1926. Il 2 gennaio 1927 il commissario indice l’assemblea generale, cui partecipano 51 iscritti su 74: sono ancora quelli del 1924. Il Panigas apre i lavori dell’assemblea ricordando il provvedimento del Prefetto che disponeva lo scioglimento della Società, ma soprattutto evidenziando la sua faticosa opera di mediazione intesa ad ottenere la revoca di tale atto e la ricostituzione dell’ente previa modifica dello statuto non più in linea con i tempi!

Antonio Solagna è presente e chiede chiarimenti in merito alla bandiera sociale: sembra abbia avuto assicurazioni circa la conferma del simbolo. Altro punto nodale positivamente risolto, almeno per il momento, è l’ammissione alla Società dei vecchi iscritti e il riconoscimento della loro qualità di soci fondatori della Nuova Operaia. La loro presenza è una garanzia di sopravvivenza della benemerita istituzione, anche se alcuni di loro verranno poco dopo espulsi dal sodalizio.

L’assemblea in questione elegge il nuovo presidente nella persona di Vittorio Gelisio e suo vice Costantino Marcer (Nini), riconfermati nel 1929 e nel 1931. Nel 1933 la presidenza viene affidata al geom. Pier Vittorio Gelisio, figlio di Vittorio, e la vicepresidenza ancora a Costantino Marcer. Entrambi saranno riconfermati nel 1935, 1937 e 1939. L’assemblea generale del 12.01.1941, essendo richiamato alle armi il 1 presidente Gelisio, elegge presidente Attilio Tremea da Cesana e vice I Giovanni Faccini (Nano). Ma il 09 marzo il segretario politico di Lentiai convoca l’assemblea generale per comunicazioni urgenti. Il verbale di questa assemblea così recita: Il Vice Presidente sig. Marcer Costantino, in mancanza del Presidente Gelisio Pier Vittorio, assente per richiamo alle armi, rimanda la seduta alle 11.30 per mancanza del numero legale dei soci. Alle 11.30 apre la seduta il Segretario Politico con il saluto al Duce. Il Segretario Cassiere procede all’appello nominale dei soci che risultano in numero di 18. Prende la parola il Segretario Politico, facendo presente che le nomine delle cariche sociali deliberate dall’Assemblea precedente 12 gennaio c.a. devono essere annullate perchè contrarie alle disposizioni del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista] riguardanti i camerati fascisti, i quali occupando cariche all’atto del loro richiamo alle armi, non possono essere sostituiti. Per tale ragione il presidente camerata Gelisio Pier Vìttorio, richiamato alle armi, deve rimanere in carica fino al suo congedo. Lo sostituirà il vice presidente con la carica di Reggente. I Soci hanno approvato all’unanimità esprimendo il desiderio che anche il Consiglio d’Amministrazione rimanga quello di prima. Il 21 febbraio 1943 il vice presidente Costantino Marcer si dimette per ragioni di salute e viene sostituito dal socio Luigi Zornitta (Gijo Tèle). E’ questa l’ultima riunione ufficiale del periodo bellico. Il 18 marzo seguente dovrebbe tenersi infatti il consiglio di amministrazione, ma non ha luogo. Manca anche il segretario politico. Del resto la situazione politica generale comincia ormai a scricchiolare e in breve si arriva al 25 luglio. Con la caduta del regime fascista ogni pubblica istituzione si sfascia e cessa ogni attività sociale complementare. Le sorti della Società riposano automaticamente nelle mani del ristabilito consiglio d’amministrazione uscito peraltro dall’assemblea generale del 9 marzo 1941, con la variante che a reggere il sodalizio c’é ora Luigi Zomitta. Questo gruppetto di volonterosi si trova con la patata bollente in mano, ma grazie al sostegno morale e spesso materiale degli iscritti, riesce a tenere in piedi la vecchia struttura, avvantaggiato anche dal fatto che nel vuoto politico e amministrativo del momento nessuno si occupa di essa. Potrà così essere consegnata nella sua integrità all’assemblea generale ricostituitasi due mesi dopo la fine della guerra (24.06.1945).

Gli atti salienti del periodo fascista si possono così sintetizzare:

31.01.1927 – a) espulsione dalla Società di Guido Cristini, Antonio Solagna, Antonio De Ros, Giovanni Fugazza, Ettore De Gasperin e Antonio Tremea fu Giosuè e accettazione di 13 nuovi soci, cui viene attribuita, unitamente ai vecchi iscritti accettati, la qualifica di soci fondatori della nuova Società (quella ricostituita in base allo statuto dell’01.11.1926);

b) viene menzionata l’esistenza di una pittura raffigurante Felice Cavallotti, che si vuole conservare in seno alla Società;

c) viene deciso di stipulare un contratto con la Società Altanon per l’installazione dell’energia elettrica nella sala.

20.01.1928 – Si decide di chiedere alla famiglia Cristini la concessione di mq 4 (quattro) di terreno per la costruzione di una latrina, senza la quale la sala non potrà essere collaudata per usi sociali, notamente per la sua destinazione a sala di proiezione cinematografica.

05.02.1928 – Viene letta in assemblea una lettera datata 29.01.1928 della Società del Cinematografo in risposta ad una richiesta dell’Operaia circa l’acquisto di una macchina cinematografica. Il presidente di quella società assicura la fornitura della macchina solo nel caso la Società Operaia s’impegni a rendere la sala nelle condizioni previste dalla legge, cioè collaudata e munita di latrina. E da chi è firmata questa lettera? dal suo presidente: Guido Cristini! Considerata una plateale presa in giro, si biasima non solo la risposta, ma anche, e soprattuto, chi l’ha firmata. La storia del 4 mq e della latrina si conclude il 27 febbraio 1933, quando i due fratelli Cristini, Ottorino e Guido, sbollita la rabbia per l’espulsione dalla Società, sottoscrivono una concessione capestro dei 4 mq e la latrina può finalmente essere costruita. Nel Registro dei verbali non si trova alcuna menzione del fatto, ma soltanto la decisione del consiglio d’amministrazione, in data 19.02.1933, di costruire la fatidica latrina. Ciò significa che i Cristini avevano dato ampie garanzie sulla concessione.

05.08.1928 – L’impianto elettrico nella sala, effettuato dal signor Beniamino Slongo, risulta ultimato.

05.02.1929 – L’assemblea approva l’acquisto di una macchina cinematografica da effettuarsi dopo l’esecuzione di tutti i lavori richiesti dalla legge, con relativo collaudo. A tal fine viene contattata una società di Venezia, rifiutando di trattare con quella presieduta da Guido Cristini.

29.08.1929 – Per 4.759 lire viene acquistata a Feltre presso la succursale di una società triestina l’agognata macchina cinematografica, che viene affidata all’operatore Beniamino Slongo con il compenso di £. lO a serata. I prezzi d’ingresso sono così fissati: £. 2 per i primi posti, £. 1,20 per i secondi e cent. 75 per i terzi (ragazzi). Al riguardo non si può non rilevare che l’agibilità della sala è stata concessa anche in assenza della latrina. Cosa non fa la forza dell’ideologia! Ad ogni buon fine c’è da rilevare come l’attività cinematografica occupi a lungo il direttivo della Società, perchè i problemi che la macchina infernale procura non finiscono mai.

18.01.1931 – Il Presidente Vittorio Gelisio lamenta la continua diminuzione dei soci: dal 1926 non c’è stata alcuna nuova iscrizione e ben 32 sono state le dimissioni. I soci presenti a questa assemblea sono appena

27. 30.11.1933 – Viene deciso di aprire una porta gemella alla porta d’ingresso per ripararsi dai rigori invernali.

04.02.1934 – Assemblea generale ordinaria: i soci iscritti risultano 56, ma presenti solo 34. 11.02.1940 – L’assemblea generale affida al Consiglio d’Amministrazione la decisione circa la proposta presentata dal signor Solagna Antonio di voler acquistare parte della vecchia bandiera ¬opera del prof Cima – dietro offerta di .£. 500. 28.02.1940 – Il Consiglio d’Amministrazione risponde negativamente alla domanda di Antonio Solagna, in quanto il ritratto in questione di Felice Cavallotti è una donazione del maestro Cima e opera artistica di valore inestimabile. Esso deve quindi essere conservato e custodito in aumento anche del patrimonio della Società stessa.

21.02.1942 – Il Consiglio d’amministrazione incarica il Vice Presidente Costantino Marcer a ritirare dal sig. Vittorio Gelisio il dipinto del pezzo della vecchia bandiera della ex Società con il ritratto di Felice Cavallotti (opera del pittore pro! Cima) e depositarla presso la Banca Agricola Cooperativa di Lentiai.

21.02.1943 – Ultima assemblea generale del ventennio. Nella trattazione delle varie ed eventuali, il gestore del cinema chiede certe modifiche ambientati alla sala. l’assemblea all’unanimità risponde: date le attuati contingenze nessuna modifica venga fatta fino al conseguimento della aupicata certa vittoria delle armi alleate (Italia e Germania).

Nel 1926, dunque, la vecchia Società Operaia viene sciolta con ordinanza prefettizia e viene nominato un commissario per la sua liquidazione. Trattasi di una sceneggiata ben orchestrata, tesa invece a tenere in piedi la Società su basi fasciste per controllarne i soci, la maggioranza dei quali si oppone al regime. La storiella quindi del commissario Panigas all’assemblea generale del 2 gennaio 1927 di essersi adoperato perchè il Prefetto revocasse il decreto di scioglimento, è soltanto un vanto personale per attirarsi i ringraziamenti e le simpatie dei neofascisti, dei tiepidi e degli avversari. In realtà tutto era stato studiato a tavolino. D’ora in poi la nuova Società viene stabilmente controllata dal PNF tramite il segretario sezionale di Lentiai. In tal modo vengono messe a tacere le voci non in sintonia con il governo. I soci più pericolosi vengono espulsi, gli altri, sia perchè intimoriti, sia per garantire la continuità originaria del sodalizio ed un certo possesso della struttura, si adattano a far parte del consiglio direttivo e a sottomettersi agli usuali saluti al Duce e al Re Imperatore che aprono e chiudono ogni incontro. Anche se a prima vista le modifiche al vecchio statuto non appaiono così vistose come ci si attenderebbe, in realtà esse sono estremamente innovative, tali cioè da trasformare con poche parole un’associazione come l’Operaia in un’ Opera fascista di aggregazione politica e dopolavoristica. Basta leggere attentamente l’ultima parte dell’art. 3 per rendersi conto come in poche parole sia concentrata tutta l’essenza del fascismo. Un’altra innovazione è sancita dall’art. 21, ad esempio, la quale eleva la durata delle cariche sociali a due anni.. Ma al di fuori e al di sopra delle norme statutarie della Società predominano gli ordinamenti del PNF, dinanzi ai quali ogni regola e ogni principio vengono annullati nell’interesse del Popolo e della Nazione. In occasione della ricostituzione in base allo statuto del 1926, il sodalizio conserva la sua denominazione antica: Società Operaia di Mutuo Soccorso di Lentiai, ma perde la dedicazione a Felice Cavallotti, il cui ritratto, come già accennato, costituisce unicamente un cimelio storico di grande pregio artistico in quanto opera del pittore Luigi Cima di Villa di Villa.. Nei due anni di vuoto gestionale della Società 0943-45) non succede nulla d’importante. Il fabbricato continua ad essere utilizzato fino all’estate 1944 come sala cinematografica, gestita dal vecchio consiglio d’amministrazione, di cui non fa più parte, neppure nominalmente, l’ex presidente Pier Vittorio Gelisio.

Dal 1945 ai giorni nostri

Cinque anni di nefasto conflitto mondiale hanno prostrato l’Italia. Dominano la miseria e la disoccupazione e allora si spalancano nuovamente le porte dell’emigrazione. Molti espatriano anche clandestinamente, sfidando la caccia cui sono sottoposti alle frontiere, pur di cercare altrove un pane forse più sicuro. Lentiai è in questi anni il termometro della cruciale situazione economica bellunese. Nonostante ciò, i vecchi soci dell’Operaia tentano di ricucire gli strappi profondi della guerra e di recuperare quanto rimane della vecchia istituzione, consapevoli che il panorama è radicalmente mutato. In un paio di mesi la Commissione nominata in seno ai soci superstiti del 1943 e a quelli che nel cuore rimasero tali anche durante il periodo di oscuramento, ottiene l’adesione di ben 130 persone, che il 24 giugno 1945 sono convocate in assemblea per riprendere il cammino interrotto dagli eventi bellici.

I lavori si concentrano sul discorso del sindaco Ernesto Ferrazza, il quale condanna gli avvenimenti del 1926-27 e sollecita l’assemblea a ridare vita all’antica Società. All’unanimità viene eletto presidente onorario il fondatore Antonio Solagna. Poi con 77 voti su 88 viene eletto presidente Romeo Luzzatto di Bardies. Strana elezione questa: il nuovo presidente è molto, ma molto più vicino agli avvenimenti del 1926-27 che a quelli del 1944-45!

All’assemblea generale del 27.01.1946 gli iscritti salgono a 165, ma solo 76 si presentano in sala. Per la prima volta, e sarà invero anche la sola, l’elezione del nuovo Consiglio e del presidente avviene per alzata di mano anzichè per scrutinio segreto come vuole lo statuto. In tal modo è acclamato presidente il maestro Olindo Fugazza, riconfermato tale nel 1947 e 1948. rIn questi critici e tristi anni dell’immediato dopoguerra le difficoltà incontrate dall’Operaia per risollevare le sue sorti sono veramente enormi. Necessitano fondi urgenti per rimettere in ordine la sede e per effettuare lavori di ampliamento, considerati indispensabili al fine di poter iniziare un discorso di vero rilancio dell’attività sociale. E già in quel 1946 viene deciso di ampliare la sala verso ovest, facendo leva sulla comune buona volontà, visto che le casse sono vuote.

Gli impresari sono ben disposti e i soci istituiscono tra di loro turni gratuiti di lavoro, iniziando dalla raccolta di sassi e sabbia. Nonostante questi slanci e le donazioni, la Società è costretta ad eccendere un prestito presso la locale Banca Agricola per poter fronteggiare gli elevati costi dei materiali edili e del loro trasporto. Il debito viene lentamente ripianato grazie al concorso di interventi straordinari di soci e di esterni e alla particolare sensiblità degli emigrati lentiaiesi in Argentina, quelli del Mutuo Soccorso di Buenos Aires incontrati nel 1927, i quali, sotto la spinta del loro presidente Giovanni Bajocco di Bardies (Nani Cadorin), inviano la cospicua somma di 79.048 lire, con la quale viene estinto l’impegno bancario.

Della vecchia struttura mutualistica rimangono in questi anni di carestia solo sporadici interventi assistenziali, riservati ai soci lavoratori malati, cui viene erogato un sussidio giornaliero di lire 20 nel 1947 e di lire 50 nel 1949. Ma anche quest’ultimo legame sentimentale con il passato cessa del tutto qualche anno dopo, non solo per mancanza di fondi, ma soprattutto perchè l’emigrazione elimina i soci disoccupati e quei pochi che rimangono s’industriano ad occuparsi durevolmente, assistiti ormai da una legislazione sociale avanzata. Calano in tal modo le iscrizioni al sodalizio e diminuisce drasticamente l’afflusso di denaro nelle casse societarie. La mancanza cronica di fondi si aggrava ulteriormente e diventa una costante, quasi una maledizione inarrestabile. Fin dal 1947, infatti, i dirigenti studiano strategie finanziarie per poter risolvere i problemi materiali della sede. La sola strada praticabile sembra essere quella di affittare la sala per svolgervi attività che purtroppo nulla hanno a che vedere con i fini morali e materiali dell’ente. L’unica preoccupazione è soltanto di introitare fondi per la manutenzione dello stabile e per qualche miglioria inerente le esigenze di affittanza. In mezzo secolo non è mai stato possibile mettere insieme in una sola volta il gruzzolo necessario a restaurare in modo durevole la sede e poterla quindi destinare ad attività proprie in sintonia modernizzata con i principi statutari. Che la realtà socio-economica sia totalmente mutata rispetto a quella di mezzo secolo prima, è fuori di ogni dubbio; ciò nonostante stupisce la crescente apatia dei soci verso la Società. Sembra quasi che molte adesioni siano forzate e non spontanee. Dalla relazione dei revisori dei conti sul bilancio 1947 emerge infatti un quadro già desolante sull’attaccamento degli iscritti alla Società: un gran numero di essi non provvede al versamento delle quote annuali; non partecipa alle assemblee; si sottrae volentieri a qualsiasi forma di collaborazione gratuita nell’ambito delle attività societarie. Questo stato di cose denota un chiaro declino degli ideali di fondazione, vuoi perchè non ci sono più personaggi carismatici, vuoi perchè le condizioni di vita e di lavoro sono radicalmente migliorate. Sta di fatto che questo lento ripudio della vecchia Operaia non viene appieno percepito dai dirigenti, a loro volta travolti dagli avvenimenti, dall’inevitabile disinteresse e dalla generale disaffezione verso un simbolo che non riesce più a coagulare alcun ideale e alcuna aspirazione. Nessuna meraviglia allora se l’Operaia si trasforma via via in sala da ballo per pochi spiccioli; se nel 1952 rimane chiusa tutto l’anno; se nel 1953 viene riempita di sacchi di cemento da parte di terzi; se si chiede d’installarvi un laboratorio di falegnameria o macchinari per la fabbricazione di tela. Nell’autunno del 1953 si tenta perfino di trasformare lo stabile in un pubblico esercizio, cioè in osteria e cooperativa di consumo. Meno male che l’assemblea dei soci superstiti dimostra di possedere ancora saggezza, respingendo queste pressanti richieste. All’improvviso, in barba allo sbandamento generale, riemerge in seno al Consiglio direttivo del 15.03.1954 il mitico nome di Felice Cavallotti, che viene riattribuito alla Società dopo 28 anni di profondo oblio. Tale risveglio viene considerato ed auspicato da qualcuno come uno scossone teso a ridare fiato e speranza al sodalizio. Non sarà purtroppo così.

Si ritorna subito a parlare di destinazione diversa della sala e soprattutto di trasformarla definitivamente in cinema da contrapporre a quello esistente in piazza. Anche questo tentativo fallisce per l’opposizione dei soci. L’unica attività approvata dall’assemblea è la destinazione della sala a studio per i ripetenti che in estate frequentano i locali corsi di ripetizione organizati da privati.

Nel 1955 la sala è nuovamente adibita al ballo, ma dopo due mesi di prova il tentativo fallisce e l’iniziativa si chiude in passivo. Nel 1957 la sala rimane chiusa. L’assemblea generale del 1958 è una pura formalità, sbrigata in un quarto d’ora: non c’è nulla da discutere, né conti da revisionare. Il Consiglio non si riunisce che il 21.02.1959 per discutere la domanda d’affitto della sala da parte di una filiale del Consorzio Provinciale che intende rivendere generi agricoli e macchinari per l’agricoltura. L’assemblea dell’8 marzo successivo approva la richiesta e così per qualche tempo non ci sono problemi di gestione per nessuno.

L’assemblea generale del 1 o marzo 1960 rifiuta di affittare la sala per tre anni ad un imprenditore che intende installarvi una camiceria; la filiale del Consorzio è già sparita. A luglio il Consiglio decide nuovamente di affittare la sala ad un privato che si cimenta nel ballo domenicale.

Della Società Operaia di Mutuo Soccorso “Felice Cavallotti” di un tempo non rimane che la propensione quasi sfrenata per il ballo! ¬Ma ciò che veramente rattrista sono le deplorevoli conclusioni cui giunge il Consiglio direttivo la sera del 20 ottobre 1961. Al riguardo così recita il verbale: Il Consiglio constata che lo scopo per cui era stata creata la S.O. è cessato sotto qualsiasi punto di vista e per tale argomento si è stabilito in comune accordo che il Presidente si rechi da un notaio di sua fiducia per vedere se è possibile modificare lo statuto della S.O., ma i due revisori dei conti si oppongono.

Siamo ormai al capezzale dell’illustre moribondo. Da questo momento e fino al 2 luglio 1974 cessa ogni segno di vita societaria. La sala viene affittata al Comune che per Il anni la utilizza come palestra, restituendola il 30 giugno 1974.

L’ultimo quarto di secolo è cronaca recente. Si rinnovano i tentativi di rianimare la vecchia Operaia, ma nonostante l’impegno e la volontà profusi dai nuovi protagonisti, guidati spesso da passioni forse troppo innovative, la barca non riesce a prendere il largo come auspicato. La gente, infatti, non avverte più alcuna attrattiva morale verso quel mondo da cui proviene ed evita accuratamente coinvolgimenti improduttivi e per nulla gratificanti. Da un decennio, però, qualcosa sembra muoversi nella direzione giusta ed un risveglio degli antichi ideali. appare concretamente all’orizzonte. Nelle mutate situazioni generali del Paese e del mondo, questi ideali possono benissimo convivere con l’attuale momento storico senza per nulla perdere lo spirito di fondazione. I margini interpretativi del messaggio societario di fine ‘800 sono infatti tanti e tutti realizzabili. Celebrare degnamente il primo centenario della Società Operaia di Mutuo Soccorso Felice Cavallotti di Lentiai non può dunque ridursi ad un semplice rito commemorativo, dove troverà ampia risonanza la promessa di buoni propositi e di lodevoli intendimenti. Dovrà nascere spontaneo l’impegno di rimuovere le cause che hanno allontanato l’interesse e l’amore della gente verso questa antica istituzione. Forse riscoprendo e praticando seriamente il primitivo comune indirizzo dell’uguaglianza e della concordia, si potrà ritrovare e ripercorrere la strada del bene e del benessere, se non più materiale, almeno morale di una comunità che è ancora assetata di ideali e di scienza. Poter ritornare alle origini alle soglie del 30 millennio non significa inseguire chimere, ma ridare veste ad un ideale, espresso e realizzato un secolo fa dall’Operaia. Ideale che non può morire perchè ha in sè nobili segnali dell’umano intelletto. E sotto il tetto di questo ideale possono albergare i più svariati pensieri nel reciproco rispetto e nella reciproca comprensione: valori antichi, attuali, perenni.
(Fonte: Flavio Tremea, 1998, “La Società Operaia di Mutuo Soccorso Felice Cavallotti di Lentiai 1898”)

Felice Cavallotti
Felice Carlo Emanuele Cavallotti

(Milano, 6 ottobre 1842 – Roma, 6 marzo 1898) è stato un politico, poeta e drammaturgo italiano. Figlio di Francesco, originario di Venezia, trasferitosi a Milano per ragioni di lavoro e di Vittoria Gaudi, milanese, fu il fondatore, insieme ad Agostino Bertani, del Partito Radicale storico, movimento attivo tra il 1877 e l’avvento del Fascismo. Cavallotti fu considerato il capo incontrastato dell'”Estrema Sinistra” nel parlamento dell’Italia liberale pre-giolittiana.

I primi anni del suo impegno
Abbandonata la famiglia a diciotto anni per unirsi alla seconda fase della Spedizione dei Mille, Felice Cavallotti combatté con i Garibaldini nel 1860, e nel 1866 in Valtellina e in Trentino, ove prese parte alla Terza Guerra d’Indipendenza come volontario nel 4° Reggimento comandato dal colonnello Giovanni Cadolini del Corpo Volontari Italiani. Si distinse per valore nella battaglia di Vezza d’Oglio. Nel 1867 fu di nuovo al fianco di Garibaldi nella Roma pontificia, durante la fallita insurrezione che vide l’intervento delle truppe francesi in aiuto di Pio IX. Come scrittore Cavallotti commentò le azioni dei Garibaldini per il giornale milanese L’Unione e per il napoletano L’Indipendente di Alexandre Dumas padre; tra il 1866 ed il 1872 scrisse satire anti-monarchiche per la Gazzetta di Milano e per la Gazzettina Rosa.

L’attività politica
Dopo la morte di Agostino Bertani, avvenuta nel 1886, la passione di Cavallotti nel rivendicare riforme, ed una riconosciuta generosità d’animo da parte dei contemporanei, gli assicurarono la leadership della sua parte politica ed una popolarità seconda solo a quella di Francesco Crispi. Nel 1873, all’età di 31 anni, Felice Cavallotti fu eletto per la prima volta al Parlamento come deputato di Corteolona. Molto attivo contro gli ultimi governi della Destra storica, Cavallotti fu scettico anche a proposito della Sinistra, che salì al potere nel 1876, e si tenne all’opposizione, denunciandone il trasformismo negli anni di Agostino Depretis. Tramite un’intesa conclusa nel 1894 con Antonio Starrabba, Marchese di Rudinì, egli ottenne molte concessioni alle richieste radicali. Durante i dodici anni sotto la sua guida il partito, che sposò una posizione filo-francese, crebbe in numero da venti a settanta deputati, ed al momento della sua morte l’influenza parlamentare di Felice Cavallotti era all’apice.

I rapporti con il movimento socialista
Cavallotti, che nel 1871 aveva espresso il proprio appoggio alla Comune di Parigi, mostrava attenzione verso le idee marxiste, pur non condividendo fino in fondo l’approccio di classe alla “questione sociale” che peraltro anche lui denunciava da parlamentare. Se i socialisti vedevano nel Partito Radicale una sinistra borghese, nei fatti radicali e socialisti si trovarono insieme nelle lotte per l’emancipazione delle classi subalterne e nell’opposizione al colonialismo italiano. Il primo operaio ad essere eletto parlamentare, nel 1882, tra le file dei radicali fu Antonio Maffi. E a Napoli, colpita dall’epidemia di colera, a trovarsi al fianco delle classi popolari nel 1885 furono il socialista Andrea Costa, l’anarchico Errico Malatesta e il radicale Cavallotti.

Il Cavallotti Uomo
Nella vita privata lo stile del politico radicale non tradì gli ideali professati. Felice Cavallotti riconobbe i due figli Maria e Giuseppe, nati da due libere unioni, e colse tutte le occasioni per riaffermare la sua intransigenza come laico nei confronti delle pressioni operate della Chiesa sulla politica dello Stato italiano. E’ anche grazie a lui che a Roma, in Piazza Campo de’ Fiori, nel 1889 venne eretta la statua a Giordano Bruno, opera di Ettore Ferrari. Felice Cavallotti, descritto come persona dal carattere passionale e testardo, nel corso della sua vita combatté trentatrè duelli, e prestò il giuramento di fedeltà come deputato solo dopo averne pubblicamente contestato la validità.

Il duello fatale
Felice Cavallotti morì il 6 marzo 1898, ucciso in duello dal conte Ferruccio Macola, direttore del giornale conservatore Gazzetta di Venezia, che lo aveva sfidato in seguito ad un diverbio. Il radicale aveva tacciato di mentitore il conte, responsabile di avere pubblicato una notizia non verificata relativa ad una querela che egli aveva ricevuto come deputato. L’ultimo duello di Felice Cavallotti ebbe luogo a Roma, presso Porta Maggiore, in un giardino nella villa della contessa Cellere. Felice Cavallotti morì raggiunto alla bocca ed alla carotide dalla sciabola dell’avversario. Con la sua morte, gli elementi dell’Estrema Sinistra in Italia persero un leader, e la Casa dei Savoia un instancabile oppositore. Per la morte di Felice Cavallotti, Giosuè Carducci pronunciò un discorso funebre pieno di passione all’Università di Bologna. Un corteo di tre chilometri ne accompagnò il feretro fino al cimitero di Dagnente (oggi frazione di Arona), sul Lago Maggiore, dove è sepolto.
(Fonte: Wikipedia)

Le SOMS
Le SOMS

Le Società Operaie di Mutuo Soccorso (SOMS) sono associazioni, le cui forme originarie videro la luce intorno alla seconda metà dell’800, nate per sopperire alle carenze dello stato sociale ed aiutare così i lavoratori a darsi un primo apparato di difesa, trasferendo il rischio di eventi dannosi. Le SOMS nacquero come esperienze di associazionismo, coeve alla proto industria, per rispondere alla necessità di forme di autodifesa del mondo del lavoro. Il funzionamento delle S.O.M.S. venne regolato con la legge 15 aprile 1886, nr. 3818. All’epoca della I Internazionale (1864), erano già sorte le prime Società di Mutuo Soccorso o di mutuo appoggio, nate con lo scopo di darsi solidarietà e/o chiedere aiuto ad altri ceti sociali. L’età d’oro delle società di mutuo soccorso è nei due decenni tra il 1860 e il 1880. Successivamente a questo tipo di esperienza che alcuni (tra i quali Bakunin) consideravano paternalistica, si affiancarono altri tipi di organizzazione di lavoratori che sostituirono alla concezione mutualistica e solidaristica quella sindacale e partitica. Le società di mutuo soccorso continuarono tuttavia ad espandersi sia come numero di associazioni (che toccò il picco di 6722 nel 1894) [senza fonte]che di associati (il culmine è nel 1904 con 926.000 soci[senza fonte]). Con l’avvento del fascismo le SOMS vennero sciolte o incorporate in organizzazioni fasciste. Verso la fine degli anni cinquanta, quando le SOMS ripresero ad espandersi, la società italiana era profondamente cambiata: i lavoratori avevano ottenuto maggiori tutele, erano state introdotte le pensioni ed era stata estesa la protezione nel campo sanitario (almeno per il lavoro dipendente), mentre scarsa era la “copertura” per professionisti e lavoratori autonomi; nei loro confronti si spostà quindi la maggior parte del lavoro svolto dalle SOMS. In questi ultimi anni, in particolare, le Società di Mutuo Soccorso hanno poi rivolto la loro attenzione soprattutto verso l’assistenza sanitaria integrativa. Al 31 dicembre 2006 alla Federazione Italiana della Mutualità Integrativa Volontaria (FIMIV) aderivano 146 Società di Mutuo Soccorso.